lunedì 16 novembre 2020

LA FACOLTÀ DI VIVERE

Per riabitare i paesi ci vuole la religione dei luoghi. Una sacralità disoccupata, la stessa che è in noi.

Franco Arminio


Ad abitare il sud ci vuole orgoglio!

Ad abitare i borghi e le aree interne del sud ci vuole follia, una dose insensata di incoscienza, di forza carnale e viscerale, di psicopatia allo stato cronico e, forse, anche tanto amore delirante.

Nel dibattito post-Covid di questi mesi, queste entità urbane, i borghi per l’appunto, per decenni ignorate e messe ai margini di ogni discussione sullo sviluppo urbano, hanno assunto il ruolo di protagoniste, divenendo un rifugio protetto dall’incedere, pericoloso ed arrogante, della pandemia nelle città. Isole felici di aria buona e distanziamento naturale, dove ad un’assenza di inquinamento atmosferico si associa una genuinità del vivere quasi arcaica, fatta di riti e di tempo immobile. Insomma, una visione romantica di un mondo bucolico e fuori dalle frenesie contemporanee.

Ma vaglielo a spiegare alle soubrette dell’architettura e dell’urbanistica che occupano ogni spazio giornalistico, o ai filosofi delle scienze sociali e politiche che vomitano saggi in quantità industriale, o ai commentatori del tutto e del contrario di tutto che fanno dei social il loro pascolo d’altura, che vivere in un borgo è alquanto estremo, e se poi è un borgo del suditalia, questo può diventare un atteggiamento quasi miracoloso.

Ciò non significa che non sia bello abitarci: è solo un po’ più articolato, complicato, coraggioso, rispetto alla città, anche quando invece questo dovrebbe essere la normalità in una nazione che si possa definire “civile”, ed arrivare a farlo non è un automatismo tanto fluido e preciso, né esente da scoraggiamenti e frustrazioni.

Eppure viverci è una facoltà per pochi, una facoltà che dovrebbe essere invece garantita a tutti, soprattutto a chi c’è nato: abitare le proprie radici dovrebbe essere un diritto costituzionale, universalmente riconosciuto, e inscalfibile.

Eppure la qualità di vita che regala un piccolo borgo ha un valore impareggiabile nell’economia del benessere individuale.

Eppure, per chi sceglie di farlo, e per chi può farlo, vivere in un’area interna, è un privilegio che va colto nella sua comprensione più intima.

Eppure, nonostante dal di fuori oggi appare che la vita in una piccola realtà urbana sia quanto di più magico possa esistere, purtroppo non è così.

Allo stato attuale, in Italia, il 16% della popolazione (poco meno di 10 milioni) vive in comuni di dimensioni inferiori a 5.000 abitanti, con tutte le difficoltà di sorta legate ad orografia, infrastrutture, servizi, che questo comporta, nonostante la nostra nazione sia sempre stata, sin dal suo sorgere, la federazione dei municipi: organi amministrativi e corporativi di dimensioni contenute, capaci di segnare il territorio in modo determinante, in termini economici ed anche paesaggistici.

La dimenticanza dell’epica e dei fasti dei municipi, e quindi la loro conseguente agonia culturale, avviene con l’era moderna, quella dell’industrializzazione, quella della perdita di sacralità verso il luogo che si abitava, quella dell’aggressione al senso naturale delle società umane. E così, i piccoli centri, svuotati di senso e di abitanti hanno declinato il loro futuro verso la tragedia dell’abbandono.

Cosa sono oggi i borghi, i loro centri storici, i loro monumenti, le loro campagne e le loro strade?

Scatole e distese vuote. Eh sì, sono spesso contenitori di pietra e calce, lingue di asfalto e campi incolti, privi di senso vitale. In essi la quotidianità è un’eccezione, non la regola, e a fronte di questa emorragica perdita di vita, le politiche urbane di questi anni sono state scarse ed inefficaci, per due ordini di motivi.

Il primo, è dovuto ad un approccio puramente materiale verso il tentativo di recupero delle identità delle aree interne. Non servono politiche quantistiche, o esclusivamente monetarie, o di finanziamento, per riabilitarle. Occorre un metodo poetico, fatto di conoscenza e di cura, di piccoli atti di rispetto e di integrazione, dove le leggi del recupero siano scritte dal basso, da chi quei luoghi ancora li vivi e con fatica li preserva, e di intendimenti alti, culturalmente alti, non fatti solo di impalcature, gru e calcestruzzo.

I borghi si rifanno perché sono le loro comunità a rifarli, quando si creano e si condividono idee semplici, con una visione chiara, con una causa buona ed etica, ed imprimendo una grande dosa di fiducia in chi partecipa a quel processo rigenerativo, come se fosse un polmone che respira ottimismo.

Il secondo, è legato al senso di accessibilità. Spesso, nella maggior parte dei casi, i piccoli centri interni, sono elementi naufraghi nel paesaggio, arroccati ed inespugnabili, per conformazione geografica e per impianto urbanistico, isolati dall’intorno per quello spirito difensivo che ne aveva innescato la nascita. Se non si comprende che uno degli elementi necessari alla riattivazione dei centri urbani minori è dare ad essi accessibilità, non si potrà mai pensare ad un loro pieno recupero. Serve accessibilità alle persone, alle merci, ed ai dati, e questo implica che l’infrastrutturazione, fisica ed immateriale, va riqualificata o creata ex novo.

Ma prima di tutto, e concludendo, le infrastrutture più urgenti e necessarie ai borghi sono di tipo mentale e culturale.

Spesso si abbandona non per necessità, ma per vezzo. Ecco perché l’orgoglio è un elemento fondamentale per tener in vita questi centri. L’orgoglio dell’appartenenza, innanzitutto. L’orgoglio della propria storia.

Spesso si abbandona per necessità. Da qui, il ripopolamento passa attraverso la capacità di mettere in piedi politiche di riavvicinamento, basate sul diritto al lavoro (anche da remoto), alla salute ed all’istruzione. I centri storici, o i piccoli comuni delle aree interne, all’interno dei quali non ci siano presidi di istruzione e di cultura, luoghi di cura alla persona e reti di accesso ai dati, capienti e veloci, sono destinati a rimanere vuoti.

Spesso, e non da ultimo, si abbandona per incapacità. L’incapacità più grande è quella di scegliere, in libertà e con amore. Sovente, la responsabilità di questi atti non appartiene alla maggioranza. Vivere il borgo, vivere il sud, a prescindere dalla possibilità economica o meno, è un atto di libero arbitrio, di grande attaccamento ai luoghi ed alle sue genti, agli odori ed alle luci delle sue contrade, al senso di un divenire distorto ma umano. Spesso si abbandona perché si è incapaci ad amare ciò che si ha.

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