giovedì 1 maggio 2008

...quei campi di grano gonfi di luce.

Paesaggi meridiani attraversati di pensieri.
E' una notte calabra gravida di magia quaggiù, dove anche il tempo sembra invecchiare assieme alle cose.
Se non fosse per un cielo allagato di stelle, stasera quell'impenetrabile roccia di buio che lega l'aria alla terra peserebbe sul paesaggio ancor di più. Ma qui è così. Tutto, prima o poi, deve essere riletto con la poesia degli elementi altrimenti diventa insopportabile pena, e anche una notte dura ma magica come questa, bisogna viverla portando a spasso i pensieri nei territori dell'ottimismo.
Passeggio anch'io con la mia mente, lento come una littorina di collina, placido come una vecchia donna vestita di nero, lieto solo di portare le mani in tasca. Passeggio avvolto da un'invereconda estasi, in una città meridiana, che è squisita con i suoi sapori, profumata con i suoi odori, silenziosa per la gravità della notte fonda. Nel fare ciò sono animato da un profondo rispetto per tutti questi silenzi che a tratti vengono rotti solo da languide ombre facenti capolino dagli angoli delle case, che hanno intonaci che trasudano muffa da tutti i pori e che poi sanno d'antico. Sono ombre sparse e solitarie: quella di un gatto grasso dal pelo fluente in cerca del suo ultimo (o primo?) boccone della giornata; quella di un rugoso uomo stanco, ubriaco della vita e dei suoi frutti; oppure ancora quella di civette che infieriscono echi petulanti contro anime inquiete, stando appollaiate su davanzali crepati dall'incuria.
Però, fondamentalmente, tutto dorme.
Dorme questa città con la sua gente, e dormono i monti caldi di una giornata passata al sole, e dormono le colanti lingue d'asfalto che inforcano questi colli.
Tutto dorme, in attesa di quel giorno nuovo che è oramai prossimo, vicino al suo divenire, eppure apparentemente così lontano. Il guaio è che con notti come questa, difficilmente vorresti vedere arrivare l'alba, perché sarebbe come svegliarsi da un sonno in preda ad un sonnambulismo cronico, perché bisogna esserci dentro le cose per goderle fino in fondo, esserne avvolto, ma non coperto, lieto di poterle vivere e di conservarle come le pagine scritte dentro a un libro.
In ogni caso, quando il ventre dell'orizzonte partorirà questo nuovo sole, io ci sarò ancora a bagnarmi della sua luce, e sarò ugualmente contento, come ora, in questo buio, e forse spererò, proprio come adesso, che quel giorno non vada a terminare, che quella lampada di fuoco non vada a spegnersi, e che nessuno possa svuotare queste strade di vita.
Eccola, la furibonda rapsodia di un uomo meridiano.
Chi abita questi accatasti lenzuoli di terra non può che sentirsi così: furioso e passionale, combattuto tra la notte e il giorno, perennemente in cerca di quello che più appaga la propria personale voglia di sentirsi dentro le cose della vita. Un cerchio che non finisce mai di chiudersi, perché si è alla ricerca continua del perfettibile, un movimento celebrale che deve esserci, costi quel che costi, altrimenti è la fine.
Questo cammino di pensiero è fatto come su di una strada di montagna, dove è piacevole ascoltare solo il proprio respiro fendere l'aria, il peso della stanchezza contrarre i muscoli, e il tumido gocciolare della fatica innaffiare la fronte. E' una strada di mezzo che in pochi segnano, la strada che ti guida tra le pieghe di un evento, una strada così vuota da svelarsi quasi surreale. Vie o viuzze, vicoli o viali, portici o androni comunque esse siano, sono queste le strade da perseguire per sfiatare certe assurde embolie mentali che spesso rendono comatosi questi tiepidi paesaggi meridiani.
Un cammino che poi d'improvviso, in una frazione di istante, ti conduce allo sgorgare del nuovo giorno. Ed è allora che le cose mutano.
Tutto si trasforma plasmato dalle ombre che il sole ci dipinge sopra, in modo così sfacciatamente bello da farti sentire impotente, attonito di una meraviglia tanto che stenti a credere che ciò che vedi possa essere la tua terra, la tua casa, quel ricovero dove il tuo corpo vive, ama, e dove prima o poi morirà. Una terra che è femmina, fatta di zolle carnose e fertili, di odori dolciastri venati d'amaro, di alberi filiformi e sensuali, di un tutto che può divenire immediatamente un niente, e poi di fresca brezza, tanta brezza, brezza che accarezza le membra, che ti porta in bocca il sole, e che mitiga gli spiriti irrequieti dandogli la parvenza di docili intenzioni.
Ci sono dentro questa terra, e ne rappresento ogni singolo, infinitesimale e leggerissimo granello di polvere. Ci sono e ci voglio rimanere fino a quando andrò a ricongiungermi con essa, cercando con tutte le mie forze di cavalcarne le indomite furie, di addomesticarne quegli umori altalenanti, consapevole anche di poter essere vittima di qualche tagliente sciabolata. Ma non mi importa, perché quando s'ama si accetta tutto dell'altro, il bello e il brutto, il buono e il cattivo, purché coscienti della propria specifica individualità. E il tempo poi, qui dilata gli spazi, calmo nel suo divenire propone al pensare la riflessione sulle cose della vita, ci regala intervalli di letizia che purtroppo consideriamo solo come momenti di pigro ozio, quando invece dovremmo renderci conto della fortuna di cui godiamo, del privilegio di cui ci onora: tempo per l'io.
Questo è un tempo di provincia. Questo è il nostro tempo. Risorsa più che difetto, locale più che globale, meno veloce e arrembante di quello metropolitano che uccide il pensare proprio mentre ti fa godere delle tante, molteplici e infinite possibilità. Il tempo lento è quello che ti culla, ti addomestica, ti rende docile, (ma guai a farsi narcotizzare!), ospitale con l'altro che verrà.
Un tempo che trama fitte reti di parentele, che unisce le genti attorno al fuoco raccolto ed accogliente delle famiglie, fatte di madri che portano in grembo acqua e vita, per poi allattare i loro figli del nettare di Eva e scriverne l'intelletto con la luce di un giorno meridiano qualunque; di padri che arrancano sulle salite della fatica per dare dignità ad un vivere a volte stentato; di fratelli e di sorelle nati dall'amore e cresciuti sull'onore; e poi di nonni che cantilenano storie di un passato che fu, eppure così terribilmente contemporanee, perché le emozioni non passano mai di moda, sono congiunte all'uomo sempre allo stesso modo, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, tra secoli che diventano eternità. Famiglie coese e arroccate come i paesi in cui viviamo, che se non esistessero renderebbero fragile un sistema già di per sé precario.
E' nel mezzo di questo giorno, quando le terre sono bruciate e le cervella arroventate e gli inverni sembrano primavere, che si annusano nell'aria aromi di cibo, divino come un culto, apparecchiato su tavole imbandite, colmo di insaziabile bontà, pronto per essere assaporato, gustato o divorato, ma pur sempre mangiato. Tanti bocconcini prelibati, dono di una terra umile madre di noi figli colmi di contrasti.
Se questi sono paesaggi pieni di contrasti, allora è da considerarsi un bene. Perché è proprio dai contrasti che nascono gli equilibri, si limano le creste acuminate e si cerca un luogo per l'anima dove far convivere tutto, ma non in forma di accozzaglie, bensì con l'armonia di una tiepida giornata d'Ottobre, o con la rassicurante ninna nanna di accompagno ad un sonno. Sono questi gli infiniti patrimoni dei paesaggi meridiani, da capitalizzare per renderli ricchezza, materiale e spirituale, ed è per questo motivo che non siamo e non dobbiamo sentirci luoghi di confine, e non dobbiamo neanche credere a quella idiota affermazione secondo la quale Cristo si è fermato ad Eboli.
Quando sento dire questo, in tutta franchezza, penso che Cristo, fermandosi lì abbia commesso un grave errore. Non sa quello che si è perso non proseguendo!
Si è perso una di quelle domenica mattina fibrillante di luminosità, scheggiata qua e la da qualche sottile nuvola bianca. Una di quelle mattine in cui i nostri paesaggi meridiani sono decisamente emozionanti, da mozzafiato, perché addobbati come una fulgida sposa dalle guance di vaniglia, e poi perché sembrano disegnati, con orizzonti puliti e netti, da una matita morbida ma ben affilata. E si è perso ancora tanto altro.
Donne, lucide come il bronzo di greca beltà, che attraversano gli anfratti di paesi di collina, cariche unicamente della loro burrosa fisionomia, pane caldo e fragrante appena sfornato, fiere, degne ed umili, tutte sangue e latte.
Boschi di nuvole che quando rotolano giù dai monti, furiosi e impetuosi, regalano alle giornate una dinamica accelerazione, vertigini di aria ed acqua che diversamente riusciresti a vedere in altri posti.
Ma poi, anche quando tutto sembra scontato e già visto, all'incedere di un mezzogiorno arso di sole, camminando, svolti una curva, lì ad aspettarti per sconvolgerti ancora di più i sensi ci sono…quei campi di grano gonfi di luce.

Nessun commento: